Nel Settantanove, diciotto giugno. Un ricordo

Un anniversario un po’ particolare, quello che ricordo oggi. Cadono ventiquattro anni, infatti, dall’inizio della mia attività lavorativa.
Forse, è il momento per fissare nella memoria le immagini delle mie esperienze giovanili di “smanettone” elettronico e di curioso sperimentatore delle nuove tecnologie…


Ero sempre stato, come si suol dire, un praticone.
Uno che, appassionato sì dell’elettronica, delle necessarie basi matematiche ne apprezzava solo il minimo indispensabile.
Il calcolo della polarizzazione di base. L’amplificazione di uno stadio ad emettitore comune. La retroazione (un po’ pallosa ma come poterla ignorare?).

Ma poi, sperimentare! Erano gli anni in cui dalla paghetta settimanale sfumavano i quattrini, non per fumarmi le bionde come facevano i coetanei ma per comprar transistor, condensatori e resistenze; seppur fumati anch’essi periodicamente in azzardati esperimenti o per casuali cortocircuiti: era la mia sfiga tecnologica degli anni settanta…

E poi, il digitale. Cominciai, e non a caso, nel Settantadue. Per mia sfortuna un virus provocò una forte perdita di udito al mio orecchio preferito, quello destro (il sinistro era già piuttosto in tilt fin da bambino), e un po’ per consolarmi, un po’ pensando che non avrei più potuto apprezzare le sfumature musicali dell’hi-fi, iniziai a giocherellare con i circuiti che nelle riviste specializzate dell’epoca imperavano: i primi circuiti integrati, i display con le “nixie”, curiose valvole al neon con gli elettrodi a forma di cifra che si illuminavano a comando, i contatori digitali e così via.

I microprocessori vennero molto dopo: io nel frattempo, passata la maturità, mi ritrovai invischiato mio malgrado negli studi universitari che mai riuscii a digerire nè a concludere – ma era il volere di mio padre che sognava me ingegnere, e che me lo ripeteva fin da quando, bambino, mostravo già la curiosità per circuiti elettrici e lampadine.
Formule astruse di analisi matematica, pesanti teorie che mi facevano sentire pesce fuor d’acqua, e un’incombente depressione. Anche qua il ripudio della teoria aveva la meglio, tant’è vero che una delle poche materie in cui arrivai ben oltre la sufficienza fu Elettronica Applicata, e ricordo perfino un esame di Teoria delle Reti Elettriche scampato grazie all’aver portato come studio sperimentale la descrizione di alcune prove riguardanti la generazione di nuovi suoni e timbri musicali mediante composizione di treni d’impulsi variamente conformati – erano i miei esperimenti musicali casalinghi o meglio “casinofonici” che riuscii a riportare in linguaggio “Spice” nel grosso Univac di facoltà, a schede perforate…!

E’ nel Settantanove che arriva la svolta. E che cosa accade in quella data che ho messo a titolo del mio ricordo? Bè; a dispetto di una mia famosa frase che pronunciai a un collega che frequentava Robotica, “Ah, non sarò mai un softman!”, già dall’anno prima il microprocessore (ovvero, per chi non lo sapesse, il “cuore” anche dei moderni microcomputer) aveva iniziato a penetrare nella mia fantasia – e sempre per motivi musicali. Frullavano per la testa progetti di sequencers, generatori automatici di melodia, interfacciamenti con la tastiera a 49 tasti che comprai in quel tal negozietto che stava a Porta Ticinese, e poi le schede a circuito stampato su cui ci sperimentavo, ancora una volta, l’output con convertitore digitale/analogico allora costato un occhio della testa.

Era la premessa che spinse mia madre, un giorno, a mostrarmi quasi per scherzo un trafiletto negli annunci economici del giornale, “Guarda, cercano proprio uno come te!” e in effetti l’idea non era male: era proprio un impiego come programmatore di software per microprocessori, era una piccola ditta in cui avrei potuto “farmi le ossa” ed essendo in un campo appena agli inizi non era certo prevista la “precedente esperienza”.
E se proprio avessi voluto, avrei comunque potuto continuare gli studi.

Arriva finalmente, quel 18 giugno del 1979. Il colloquio con i miei futuri “kapi”. Quattro stanze all’ammezzato di un palazzo (neanche poi tanto distante da casa, lo raggiungevo pedalando in bicicletta, e ricordo anche il record che feci un’estate, di percorrenza di quei tre-quattro chilometri in 8 minuti, complice la città che per il caldo era spopolata!), la ditta a contratto artigiani, i primi progetti di macchine per il collaudo automatico di sistemi telefonici, i due capi uno alto e con la barba quasi da filosofo greco che gli dava un’aria assai intellettuale, e l’altro burbero e che faceva sempre domande – all’inizio pensavo fosse per mettermi alla prova, poi capii che proprio non le sapeva, quelle cose, e semplicemente chiedeva per avere spiegazioni.

E io? Visto e preso, come si suol dire, e proprio la mia esperienza di smanettone arrivò a convincerli; e ammetto di esser stato quasi una bestia rara, nell’universo dei giovani in affannosa ricerca del loro primo impiego…
I 6 mesi di prova e poi a tempo indeterminato… la ditta nel frattempo si trasferiva, il percorso sul sellino si allungava ma l’allora giovane sportivo non se ne curava, facendo il percorso da un capo all’altro della città in mezz’ora mentre col bus avrebbe impiegato di più.
E le fatiche del programmare, quasi un’immersione nella personalità della macchina di cui io ero allo stesso tempo creatore e organismo dipendente, quasi una simbiosi fantascientifica, da androide insomma.

Il commiato avvenne 5 anni dopo, complice il mio fatale innamoramento per la anzi le due Toscane… il trasferimento a Firenze, e di nuovo softwarista per microprocessori ma per 7 mesi soli: poiché il destino mi mise ancora, me comunicatore, nei binari giusti per nuove esperienze, questa volta nell’allora nascente mondo della telematica.

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Gocce di pensiero, in questa uggiosa Pasqua duemilatre

“”Tempo uggioso e quasi novembrino, colla pioggia a rade gocce saltellanti qua e là e rincorse dal pigro tergicristallo della vettura. Una Pasqua con poco o nulla di primaverile, l’immancabile pranzo a più portate e le varietà dolciarie tra uova e colomba full chocolate filled, la giratina fuori porta nonostante il clima più adatto a star sotto le coperte o, al massimo, a un cinema.”Inizia così il mio augurio pasquale. Però prosegue andando oltre alla descrizione, collegando ricordi, e-mail, e arrivando a una riflessione forse ingenua, o forse, chissà, l’unica risposta che possiamo dare a…


Tempo uggioso e quasi novembrino, colla pioggia a rade gocce saltellanti qua e là e rincorse dal pigro tergicristallo della vettura. Una Pasqua con poco o nulla di primaverile, l’immancabile pranzo a più portate e le varietà dolciarie tra uova e colomba full chocolate filled, la giratina fuori porta nonostante il clima più adatto a star sotto le coperte o, al massimo, a un cinema.Il flusso delle mail in questi ultimi giorni è andato scemando, fino ad arrivare al minimo storico di oggi. Distrattamente potevo pensare al guasto del server però siamo a Pasqua e di pazzi in giro per la Rete a digitar messaggi credo ce ne siano pochi… perché evasione ci vuole, ogni tanto, no?

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… Leggevo, tra le mail passatemi davanti, il racconto di un amico; in cui risaltava una bella immagine, da lui descritta, di un vecchio inginocchiato in chiesa; e coll’osservazione che, di solito, son le vecchiette, invece, ad essere use all’abitudine meditativa davanti al Crocifisso.
Ma chissà, m’immagino che chiunque prima o poi, e soprattutto se avanti negli anni e col pensiero della propria dipartita in tempi non più remoti, si riproponga, dentro di sé, quel mistero che la Pasqua stessa tutti gli anni ci rinfresca nella memoria; e cioé, della vicenda di quel tal Cristo storicamente vissuto in Palestina ai tempi dei Romani, e che per qualcuno non solo morì, ma anche ritornò in vita, e come simbolo di una vita che pure noi vivremmo, una volta passato quell’arco di volta che da qua, sembra chiudere il giardino della nostra esistenza.
Storia quindi misteriosa e anche se studiata e ristudiata in duemila anni di umano cammino, ancora con l’incognita suprema della sua credibilità – un fatto di fiducia, innanzi tutto.

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Ma di un altro uomo adesso mi sovvengo; incontrato un lontano giorno d’estate, anch’egli visto inginocchiato davanti a un crocifisso, e certamente più sicuro, lui, su questa risposta.
Eravamo – io e l’allora mia fidanzata – a pellegrinare in quel di Spello, cittadina umbra ancora in vesti medievali; e colui che andavamo a cercare era personaggio per alcuni versi famoso (e forse avevo già accennato a lui in altri miei scritti): erano anni che desideravo quell’incontro, innamorandomi, da ragazzo, di quel che scriveva, e di come sapesse penetrare nell’anima concetti tanto profondi di spiritualità seppure definiti in modo semplice perché basati sulla sua personale esperienza, di uomo di fede. Ché, di uomo di fede si trattava, e di alte cariche un tempo svolte come presidente dell’Azione Cattolica, e poi ritirandosi nel silenzio, alla ricerca di un rapporto più intimo con l’Assoluto, eremita volontario in un ordine monastico particolare che del deserto algerino aveva fatto la sua dimora. E infine creando poi, a Spello appunto, una sorta di suo eremo personale, in uno sposalizio a tu per tu con Dio ma aperto nello stesso tempo ai tanti giovani che volessero conoscere, e, se non capire, almeno vivere, momenti di intimità spirituale lontano dai frastuoni del quotidiano.

Ed era proprio lui, Carlo Carretto, che in quel giorno soleggiato andavamo cercando; prima nel paese (ingenuamente credevo che vi fossero pure dei cartelli indicatori, figuriamoci!) e poi, avute indicazioni da qualcuno del posto, inoltrandoci per i sentieri della campagna, in un cammino che si faceva anche faticoso per via del sole già alto nel cielo.
Infine, eccolo, il luogo: una sorta di cascinale immerso nei campi; nessuna porta a fermare l’arrivo del viandante; e la sua figura all’improvviso, uomo un po’ avanti negli anni, curvo e immobile in una stanza adibita a cappella con davanti il Crocifisso; e rannicchiato a ginocchioni, aiutato nella sua postura – lo ricordo bene – da un piccolo sgabellino.
Ci inginocchiammo anche noi; la scena dava un senso di rispetto e quasi arrestandosi il tempo, pareva vivere in un’altra dimensione. Un piccolo angolo di Paradiso dove le parole non avevano più significato, e il comunicare fosse invece affidato a improvvise intuizioni, quasi vibrazioni dell’essere che si scopriva sintonizzato, e senza sforzo, in un legame di pace, una sorta di diapason mentale che aveva nel cuore il destinatario, e un mondo immenso e non più nascosto la sua sorgente.

Forse passammo un’ora così; o forse di meno o forse di più. A un certo punto Carlo parve accorgersi della nostra presenza, e lentamente uscendo dalla dimensione meditativa, arrivammo a guardarci e scambiarci qualche parola.
Ci invitò allora nella cucina del cascinale, dove cominciammo a raccontarci con naturalezza come fossimo già vecchi amici. Non cose profonde – a quello bastavano gli sguardi – ma anche le piccole preoccupazioni di ogni giorno. Spiegammo che eravamo in cerca di una casa, e che era difficile trovarla – e a questo punto ci rassicurò, di lì a poco ci saremmo riusciti (cosa che infatti avvenne), e alla fine ci accommiatammo, con dentro di noi la gioia di un’esperienza che non avremmo immaginato di provare in questa misura.

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… Pensieri di altro genere invece, nella passata sera di Venerdi Santo: sotto un cielo stellato ma senza luna, e silenziosamente camminando, seguendo il passo dei tanti pellegrini qui ritrovati per la Via Crucis cittadina.
Le immagini della guerra non possono restare in secondo piano; e m’accorgo di stare meditando proprio su uno dei temi a me più cari, della contraddizione nel nostro mondo, tra sofferenza dell’uomo e ricerca della nostra felicità attraverso la giustizia e la convivenza tra i popoli.
… Ché se nel mondo mai come oggi è spinto agli estremi orrori il dolore di tanti, quale dovrà allora essere il contrappeso, quali azioni di buona volontà potranno mai pagare la distruzione delle città, l’offesa alla dignità dei civili, l’urlo dei feriti, colpiti e lasciati morire così, perché proprio nei luoghi teatro della guerra di adesso, neanche medicinali e materiale infermieristico è possibile far pervenire?
E allora tento una provocazione, sembra un pensiero ingenuo ma chissà… e se tutto questo urlo del mondo, questo orrore che finalmente proprio i media e la Rete in un modo o nell’altro hanno potuto svelare, non diventi percaso, nell’oscura filosofia di vita del pianeta, proprio il seme che faticosamente germoglia, di un nuovo ordine di idee, di convivenza reciproca, di rapporti paritari tra tutti noi abitanti della Terra? Perché il dolore è grande, e investe il Pianeta, e pervade oramai dovunque vi sia un uomo. Ma la reazione si comincia a vedere, il rigetto dell’ingiustizia e la voglia di pace si notano, non solo bandiere ma anche idee che si sviluppano, e schemi di egemonia politica e sociale acquisiti da anni vengono messi in discussione. E le stesse ideologie vengono scoperte quali sono, facili meccanismi per schematizzare l’uomo, per suddividere il mondo tra buoni e cattivi; e ci si accorge finalmente che questo non basta, che c’è dell’altro, che valori come rispetto delle culture e condivisione delle vicende del mondo diventano basilari per la nostra stessa sopravvivenza.

Forse, per altre strade, ecco arrivare al messaggio stesso del Vangelo di Cristo. Forse questo messaggio è scritto dentro ciascuno di noi.
Forse non tutto è perduto nel cuore dell’uomo.

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Stelle

E’ un vero peccato,
che l’aria greve delle nostre città
impedisca lo sguardo
al di sopra
della linea di orizzonte…

Perchè
lasciato il quotidiano
pulito il cielo
sgombre le nubi
aperto lo spirito
verso mete diverse,
ecco stupiti
apparire sopra a noi
sottili gelide punte di luce
a migliaia presenti
manciate d`infinito
testimoni di eterno.

Roberto Del Bianco

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