Ma non è una festa

Siamo alle solite – e per fortuna che la ricorrenza passa ormai un po’ sottotono, e non dà più quel giorno di “festa” in più, tanto comodo nel passato per costruir meglio il “ponte dei Santi”…

Parlo ovviamente della giornata di oggi, che da “Festa della Vittoria” diventa da tempo “Giornata delle Forze Armate” come se si dovesse gioire in questo, nell’esistenza stessa di “forze” dello Stato capaci sì di “difendere il territorio” ma soprattutto di perpetuare il concetto che per portare una “pace” occorra arrivare a toglier la vita ad esseri umani come noi.

Una giornata che – come anche leggo dall’editoriale odierno su Peacelink – sia invece una proposta, e vissuta come momento di riflessione e magari di maturazione personale. Come sorgente di atti che portino a tutti noi quella cultura di pace che solo un’educazione alla pace può generare.

Nella nostra società attuale, società dell’immagine, siamo tutti intrisi di apparenza e non di vita concreta. Viviamo spesso “a imitazione di”, secondo i cliché che il mezzo mediatico d’eccezione ci inonda dai suoi pixel colorati, e che più o meno inconsapevolmente assorbiamo. E se per esempio vengono elogiate le nostre truppe in Afghanistan, ecco che il concetto stesso di “forza armata” diventa un modello in positivo – altro che le convinzioni sagge di chi appena dopo l’ultimo conflitto – come pure dopo la Grande Guerra – faceva scaturire dalla propria esperienza degli orrori vissuti e subìti!

Nessuna festa per oggi. Sarà festa finalmente quando diverrà concreta, anche nel nostro vivere e nella nostra società, la convinzione di chi, memore della furia distruttrice di quegli anni bui del secolo passato, arrivò a fissare, nella speranza di un futuro migliore, nell’articolo 11 della nostra Carta. L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali”

Arriveremo a una civiltà senza guerre?

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La prima vittima

Nel turbinare veloce delle notizie online rimane impresso un titolo – oramai di ieri, e già sparito dalla home del quotidiano – e s’accende amara la riflessione.
Un’immigrata marocchina – ospite del fratello già da tempo regolare in Italia – non ce l’ha fatta. Disperata e terrorizzata dall’arrivo della data di oggi, quando parte la norma che chiama reato il solo esser stranieri e “clandestini” in Italia, e dopo che a lungo aveva cercato di mettersi a posto con la legge, s’è tolta la vita gettandosi nel fiume Brembo, in provincia di Bergamo.

Una “cronaca di un suicidio annunciato” a cui, razionalmente, non è facile nonostante tutto scegliere il colpevole, perché sicuramente ve n’è più di uno. La burocrazia che genera “mostri” e crea situazioni di stallo quasi impossibili da superare? Il legislatore (ma fa senso in Italia oramai chiamarlo così!) che non ha scrupoli nel scavalcare le più elementari norme della coscienza civica e umana per un’idea contorta di localismo e supremazia dell’Italiano o del Lumbard? Qualche sguardo insofferente che s’incrocia col “diverso” lungo il camminare per le strade (e anche se in mezzo a persone razionali e umane, le eccezioni ci son sempre)?

Fatto sta che la vittima è arrivata. La prima vittima, con qualche colpevole a cui vorrei potervi instillare nell’anima una briciola di coscienza e di rimorso. Ma quando i colpevoli presi singolarmente son solo ingranaggi di un meccanismo di Stato che diventa e diventerà sempre più omicida e “selettore” per l’esistenza dei cittadini, come affidare a una giustizia terrena la misura del dolo?
Resta l’amarezza per quanto è accaduto (Era una vita! Una vita umana!!) e la paura sempre più grande per la discesa in caduta libera, in questo nostro disgraziato Paese, di quanto avevamo in cuore come cultura, senso di appartenenza a un’umanità globale, rispetto di valori interiori e dello stesso “essere vivi”.

Una giustizia divina arriverà? Il Grande e Misericordioso alla fine userà la sua bilancia di giustizia ma ahimé non già qui su questa Terra. A noi – a noi che ancora nonostante tutto crediamo e lottiamo e soffriamo perché questi valori restino vitali! – rimane solo il “resistere” incessante e solidale, e intrecciato col comunicar valori e cronache anche se con le difficoltà e gli ostacoli che sempre più arriveranno. Il Grande e Misericordioso accolga l’anima della disperata sorella. Morta di un suicidio ma con altri colpevoli.

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E allora ero un ragazzino

moon_earthBé sì, quarant’anni fa ero un ragazzino – tredici anni e mezzo e ne mostravo ancor di meno – quando l’Apollo 11 allunò.

Un ragazzino con emozioni e sogni di ragazzino. Seppur, ricordo bene, togliendo banalità quali giudicavo già le vicende del calcio e dello sport, come pure le canzonette sdolcinate allora in voga nei juke-box in spiaggia. Epperò lasciando, nei sogni della mia immaginazione, incontri ravvicinati con i “padri” della scoperta scientifica e delle conquiste spaziali…

Ecco allora con quanto tremore ed ansia emotiva arrivai al giorno del touch down; alla radio i giorni del lancio e del viaggio, e la sera dell’evento davanti a un televisore nella sala di un bar, nel luogo di mare dove stavo coi miei per le vacanze.

Già da tempo avevo collezionato – anche la notte dal grosso “Radiomarelli” di casa – le passate imprese dei miei spaziali eroi: fin dai voli delle Gemini, le passeggiate spaziali, le prove di attracco in orbita terrestre… la conquista dello spazio era per me un segno del progresso, che – o me illuso! – avrebbe portato alla fine anche a un bene a tutta l’umanità.

20 luglio di quarant’anni fa, allora; la folla di persone accalcate e col viso attento allo schermo biancoenero su quell’alto piedistallo. E ricordo ancora la voce gracchiante “Qui Nuova York, vi parla Ruggero Orlando”, e la cronaca in diretta di Tito Stagno dal telegiornale. E le emozioni di quei passi silenziosi e sfocati discendere accennati e tremolanti dalla scaletta del LEM, con quei trecentomila e passa chilometri percorsi dalle onde hertziane per portare a noi, secondi dopo, l’impatto visivo di qualcosa che ci sembrava l’inizio di un’epoca – e forse ne segnava solo il proseguimento, o magari il culmine di una parabola che poi andrà via via a calare..

A tante cose oggi non si bada più; e siamo così svezzati e viziati e ingrulliti dalle tecnologie. E tante cose sono pure cambiate, le tecnologie stesse svelate armi a doppio taglio, e con l’Umanità tutta in bilico in un forse di folle ecatombe a cavallo tra olocausto globale e clima impazzito lungo le curve del nostro piccolo pianeta. E forse con un pizzico di saggezza in più, e di sana disillusione – e per alcuni, di amarezza profonda.

Alto su noi, il satellite del miracolo tecnologico di quarant’anni fa. Testimone – assieme agli oggetti gli strumenti e le spazzature terrestri lasciate là – di un’epoca che ha brillato per un momento e ha lasciato sperare in un’illusione di umanità lanciate verso un benessere di tutti. Viaggiatori spaziali del futuro forse sospireranno – e saranno più saggi di noi – guardando il pianeta non più così azzurro in alto sull’orizzonte lunare. Anche se spero che ciò sia solo… fantascienza dubbiosa nella mia mente.

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