E’ già pubblicato nel sito di Peacelink (a cui rimando anche per le belle immagini) ma come uso fare… lo ricopio anche qua!
La giornata di ieri 1° ottobre – 62° anniversario della strage nazista di Marzabotto – è stata una giornata emozionante, impegnativa, ricca di sorprese per me che non sono ancora del tutto abituato a “fare il reporter più o meno ufficiale” 🙂 coinvolto in avvenimenti anche “tosti” da seguire…
Una storia in comune. Un gemellaggio, come si suol dire. Anche se il termine un po’ stona, quasi ingentilendone l’effetto, ed edulcorando tra le nebbie del tempo l’origine dolorosa di tale parentela.
Marzabotto nel 1944. Halabja nell’88. Due episodi tragici del secolo passato, che detiene – annoverando, assieme a Hiroshima e Nagasaki, anche le altre mille e mille guerre, i mille e mille massacri di cui l’animale uomo si è reso responsabile – un primato che i nostri pronipoti probabilmente impareranno dai libri di storia, e sperabilmente relegandone il ricordo a periodi bui e oramai trascorsi della vita dell’uomo su questa terra.
Noi qui, adesso, in questo primo scorcio di secolo ventunesimo che già ci sta regalando nuovi orrori, a ricordare. Sessantadue anni dalla carneficina, qui, i nazisti oramai in rimessa, gli americani già vicini, e neanche da dire una rappresaglia. Ascoltiamo sgomenti il racconto delle azioni, dei massacri, donne bambini anziani costretti nei casolari e poi ammazzati a mitraglia, mirando basso per colpire anche i bambini, e a bombe a mano lanciate dalle finestre. E la chiesa violata, il parroco ucciso come un cane. E avanti così, poi, ad ascoltare; nel pomeriggio in visita silenziosa su per il monte, monte Sole che altrimenti offrirebbe ben altre visioni, natura meravigliosa e silenzioso sfondo all’assurda storia.Con noi il contraltare della memoria, della cittadina curda violata dalla chimica annientatrice di Saddam, Halabja, il sindaco. Mohammed Khadir Kareem, già conosciuto nel Kurdistan in primavera, arrivato qui a segnare con una vicinanza vera il legame solidale che unisce le due città, accrescendone la forza rievocativa e la volontà del raccontare.Nel comizio della mattina – immensità di popolo, gonfaloni cittadini al vento, la cerimonia nella chiesa e il silenzio assorto al mausoleo. Le parole e le testimonianze via via raccolte, lo stringersi al ricordo, delle istituzioni e dei cittadini – chi ha vissuto quell’epoca, chi ha sentito dai padri, chi non vuole dimenticare.
Nel pomeriggio, appunto – terminate le cerimonie, la sola delegazione curda compreso il sindaco Khadir Kareem, e il sottoscritto fortunato reporter a testimoniare, eccoci per le strade strette delle colline, monte Sole dai prati verdissimi e le vallate che aprono alla vista, in un pellegrinaggio.
Guardare e immaginare, ascoltando. Riflettendo. Con la consapevolezza della propria responsabilità – sì, perché nulla è mai sicuro, nel cuore dell’uomo, e lo sappiamo, orrori e orrori possono ripetersi lungo la scia del tempo che la nostra stirpe di umani va percorrendo. E allora serve il racconto, serve il mezzo mediatico, come cuneo scalfittore dell’indifferenza e incredulità e diffidenza comune. Serve il cronista attento, il fotografo efficace, il media manager che nella nostra epoca dovrebbe prima di tutto offrire cultura, aiutare a forgiare civiltà e maturità.
Troppo in là si spinge il male dell’uomo, se non ha un contrappeso. Il potere che scavalca l’etica del vivere civile. Il denaro nuovo padrone della nostra epoca.
Dalla memoria del passato rimanga un segno, e la sofferenza delle vittime diventi ora un seme per tutti noi; che sia germoglio di azioni di pace, di volontà e di caparbietà, nel lottare senza sosta per un ideale da calare nel reale, un ideale oramai necessario per la nostra Terra.